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Emoji «parola» dell’anno: avanti così, a tutta manetta verso il geroglifico


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Articolo di Andrea Scanzi
La parola dell’anno non è una parola, e questo forse qualcosa vorrà dire. Lo staff della Oxford Dictionaries ha scelto un’emoticon. Anzi un emoji, simboli pittografici giapponesi il cui nome si deve alle parole immagine («e»), scrittura («mo») e carattere («ji»). L’emoji scelto come (non) parola dell’anno è la faccina che piange dal ridere: «Face with tears of joy». Nel 2015 è stata la faccina più usata nel mondo. E anche questo è sintomatico, perché evidentemente in tutto il mondo accadono un sacco di cose per cui occorrerebbe ridere fino a sganasciarsi. Solo che quelle cose sono evidentemente virtuali, o al massimo derubricabili a cazzeggio marginale, e dunque a ridere non è la persona fisica ma l’emoji. Una sorta di risata conto terzi: una risata per osmosi. L’emoji che ride ma piange (o viceversa) ha vinto al fotofinish sulle parole «rifugiato» e «Brexit».

Secondo una ricerca di SwiftKey, la faccina che piange ma ride (o viceversa) è la più utilizzata a livello globale, e il suo utilizzo rispetto al 2014 è cresciuto del 4 per cento in Inghilterra e del 9 per cento negli Stati Uniti. Le classifiche sono opinabili per antonomasia e oltretutto questa è britannica: potrebbe, dalle nostre parti, essere tranquillamente sepolta da un disinvolto sticazzi. O forse no. Andrea Coccia, su Linkiesta, ha scritto ieri: «C’è qualcosa che rende un po’ triste questa scelta: nell’anno del signore 2015, infatti, iniziamo a vedere gli effetti del passare davanti a uno schermo luminoso la maggior parte del nostro tempo libero, quanto meno quello che usiamo per comunicare con gli altri (…) mentre la lingua è involuta a tal punto che l’uso del punto fermo in un messaggio può venir letto come un atto aggressivo; mentre è in atto tutto questo la parola dell’anno è un emoji che vuol dire “sto morendo dal ridere”. E non c’è niente da ridere». Arduo dargli torto. Di fronte alle emoticon (e alle emoji) le resistenze sono sempre più flebili.

A non usarle rimangono giusto gli iper-puristi, un po’ come il protagonista dell’ultimo libro di Michele Serra (cioè Serra), che passa la vita a scagliarsi contro gli smartphone (pardon «egofono»): il regno per antonomasia delle faccine, che abbondano anzitutto negli sms e su whatsapp. Resistere alle emoticon ha la sua nobiltà, sebbene di solito chi non le usa – per contrappasso – tenda ad abusare di due abomini contemporanei: i punti esclamativi a casaccio e i puntini di sospensione come se piovesse.

Le bacheche di Facebook sono quotidianamente devastate da post saturi di puntini di sospensione, quasi che ogni frase fosse sistematicamente interrotta da orgasmi continui (evento auspicabile, ma non così frequente). Chi abusa dei puntini di sospensione si giustifica dicendo che «lo faceva anche Céline», ma – appunto – era Céline. Anche il punto esclamativo andrebbe ponderato come e più dello zafferano. Se uno chiede «Andiamo a cena insieme?», non c’è bisogno di rispondere «Sì!!!!!», a meno che a chiederlo non sia stata Rosario Dawson in tacco 15 (a quel punto l’entusiasmo è più che motivato).

L’emoticon ha i suoi vantaggi: è immediata, mette (se usata con parsimonia) buonumore e aiuta a far capire il tono del messaggio. Ha un effetto terapeutico e al contempo didascalico. In più fa molto «gggiovane», con tutti i rischi caricaturali che ciò sottende. Non sembra, ma aiuta anche a tenere attivo il cervello, perché in certi casi non si capisce proprio: perché quella faccina suda? E perché quell’altra ha la bocca dritta come un righello? Cosa vuol dire, cosa intende comunicarmi? Più che emoji, spesso sono vere e proprie sciarade. È però complicato reputare positiva la decisione dei cattedratici oxfordiani. Sarebbe come se la Crusca scegliesse «scialla» come parola del secolo. La dittatura dell’emoji che ride (ma piange) pare piuttosto raccontare un’umanità confusa. Asettica, scissa, un po’ rincitrullita. Sempre meno dialogante e sempre più immalinconita. Al punto da ridere, sì, ma per finta. Per sentito dire. E comunque a sua insaputa.

 

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